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Emanuele Biolcati - il gatto dei ricordi |
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Sabato 23 Luglio 2011 07:51 | |||
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IL GATTO DEI RICORDIdi Emanuele BiolcatiCascina Macondo - Scritturalia, domenica 13 novembre 2005 Lo sfrigolio del fuoco, le fusa del gattino. Erano questi gli unici suoni che squarciavano il silenzio nel salottino di casa Valfré. Sopra un lercio divano bordeaux, a un metro dal camino, a un chilometro dai sogni, stava Federico Maria Vittorio di Valfré. Teneva gli occhi fissi nel fuoco vivo, ma dentro di lui non vi era una sola scintilla di vita, di quella vita che aveva vissuta fino a ventisette anni addietro, quando ancora l’intera Parigi lo conosceva come Dedé. Per ventisette anni era riuscito a non pensare, a non ricordare, concentrandosi solo sul suo lavoro di viticoltore. Quella sera, tuttavia, un gattino bianco e ocra, mai veduto prima, era salito sulle sue cosce e aveva rivolto lo sguardo verso lo scaffale dei liquori, soffermandosi su una bottiglia in particolare. Federico Maria Vittorio senza riflettere l’aveva aperta, aveva versato meccanicamente il contenuto in un largo bicchiere e si era perso nell’odore acre e amarognolo che ne fuoriusciva. Ora non riusciva più a compiere movimenti perché quell’Armagnac, che rimaneva immobile nella sua mano, l’aveva trasportato indietro nel tempo, attraverso gli spazi, al di là dei sogni… Federico Maria Vittorio era tornato Dedé. La Parigi dei nobili e del clero era tramontata da decenni, lasciando il posto all’Île de France dominata interamente da una borghesia intellettuale che faceva della propria città un luogo di vizio e perversione. Correva voce che nessuno fosse in grado di organizzare balli, ricevimenti, orge più armoniosamente e sfarzosamente di Dedé. Alto, robusto e bellissimo, egli non riusciva a non avere su di sé l’attenzione di nobildonne e donnacce nemmeno per un minuto; tanto che alcune megere della servitù sostenevano che non dormisse mai, né mai abbandonasse il suo caratteristico bicchiere colmo di Armagnac. Un ceppo si sbriciolò, provocando un rumore sordo e destando così Federico Maria Vittorio dal suo sogno nel passato. Gli venne in mente che avrebbe dovuto alzarsi per andare a controllare le porte della stalla, come era solito fare ogni sera, ma proprio allora il gattino si accoccolò meglio sulle calde gambe stanche, intimandogli così a suo modo di rimanere al suo posto. Il vecchio chiuse gli occhi e quando li riaprì guardava le labbra di Michelle, il seno di Teresa, il pallore di Natasha, il sorriso di Paula e dieci, venti, cento altre giovani donne che avevano giaciuto con lui nella sua alcova orientaleggiante sugli Champs Elysées. Sornione, il felino adesso aveva iniziato a estrarre e ritrarre regolarmente le unghie, senonché una di queste penetrò a fondo la pelle del vecchio viticoltore che, senza aprire gli occhi, corrugò la fronte e assunse un volto spaventato. Nella sua mente le prostitute e le dame avevano ceduto il posto all’immagine di Vania, che stava eretto di fronte a lui. Il giovane pietroburghese manifestava uno sguardo pieno di collera e delusione, di triste amarezza e di solitario sconforto. Dedé iniziò a viaggiare in dietro nel tempo, finché non giunse all’inverno di dodici anni prima, quando Parigi era invasa da moti rivoluzionari. Dedé e Vania avevano trascorso più di cento notti nell’umidità degli scantinati di Saint Germain, per pianificare ogni dettaglio della rivolta, ma avevano scordato di stabilire il da farsi nel caso in cui qualcuno fosse stato catturato dalle forze dell’ordine. I gendarmi avevano caricato, sparato e ucciso; avevano arrestato Vania. La giustizia, a dispetto dell’egalité tanto acclamata, era differente per anarchici di altre nazionalità che osavano immischiarsi nella politica della Francia. Così Vania dovette restare in carcere per dodici lunghi anni. Si diceva che le peggiori punizioni fossero riservate comunque agli italiani. Fu per la paura di un simile trattamento che Dedé volle dimenticarsi definitivamente di Vania. Ora, davanti al suo compagno, egli rivedeva la propria vita passata scorrere parallelamente a quella di Vania. Mentre questi dormiva sulla fredda terra della cella di isolamento, Dedé godeva della compagnia di cinque prostitute sulle lenzuola di seta di un letto a baldacchino. Quando la famiglia del russo moriva di fame dimenticata in una baracca sulla Senna, veniva inaugurata la nuova villa Valfré nel centro Italia. Vania dimagriva e tossiva per polmoniti, laddove Dedé allestiva sontuosi banchetti con cibi provenienti da tutto il mondo. Per dodici anni Vania era lentamente morto dentro, per dodici anni Dedé aveva vissuto. Era bastato quello sguardo gelido di uomo tradito per convincere Dedé sulla scelta da prendere. Non avendo trovato il coraggio di proferire una sola parola, distolse lo sguardo, diede le spalle al muro e se ne andò lontano da Parigi, senza portare nulla con sé all’infuori dell’atroce senso di colpa per non aver salvato Vania avendo avuto tutto il potere di farlo. Come già aveva fatto, dodici anni prima, rimosse dalla sua mente Vania e la sua vita a Parigi, per diventare Federico Maria Vittorio il viticoltore, il povero, l’eremita. A questo punto il gattino con un balzo abbandonò le gambe del vecchio, che finalmente aprì gli occhi. Il fuoco scoppiettava ancora, quasi fosse stato da poco acceso, e la luce delle fiamme illuminava malinconicamente il volto bagnato da lacrime amare. Il vecchio bevve tutto d’un fiato l’Armagnac, che fino a quel momento non aveva ancora assaggiato, e solo quando ebbe posato il bicchiere sul camino, un ritardatario pensiero gli attraversò la mente: l’Armagnac non ha sapore amarognolo. Un acuto miagolio del gatto lo riportò indietro di ventisette anni un’ultima volta, quando, solo, nel salone, aveva aggiunto del veleno in quel liquore, pensando che, se mai l’avesse bevuto, avrebbe rivissuto la vita che doveva cancellare dai suoi ricordi. Ed era convinto che a quel punto non avrebbe potuto vivere con simili rimorsi, simili rimpianti, dunque non avrebbe più avuto alcun senso continuare a vivere. Il fuoco si ravviva ancora, mentre Federico Maria Vittorio di Valfré si spegne portandosi dietro Dedé e volgendo un ultimo sguardo al suo carnefice, al suo salvatore: il gattino, che nel frattempo si liscia il pelo con gli occhi chiusi, il micio che lo ha accompagnato in quel viaggio nel passato, il malizioso e ingannatore gatto dei ricordi. LA FORESTERIA "TIZIANO TERZANI" DI CASCINA MACONDO
Il nome "Macondo" che abbiamo dato alla nostra Cascina nel 1992 " Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo comparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades…"
Si ringrazia Gabriel Garcia Marquez per aver scritto e regalato agli uomini un così grande libro. A lui la nostra gratitudine e il nostro affetto.
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Ultimo aggiornamento ( Lunedì 01 Agosto 2011 08:24 ) |
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