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Carlo Straccia - oltre il mare |
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Scritto da Tartamella | |||
Domenica 31 Luglio 2011 06:07 | |||
Affresco romano "Donna con stilo e libro" (detta Saffo)
![]() Cascina Macondo Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri - Torino - Italy Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. - www.cascinamacondo.com
OLTRE IL MAREdi Carlo StracciaCascina Macondo - Scritturalia, domenica 8 novembre 2009 Ho trascorso buona parte della mia infanzia in un posto di mare, ma non sono mai riuscito ad abituarmici. Non so neppure nuotare. Riesco a restare a galla quel tanto che basta per sopravvivere, nella vita come nell’acqua. E la vita, spesso, è salata come l’acqua di mare. Non che il mare non mi piacesse. Allora era davvero un elemento naturale, ci si poteva stare e convivere. Non era inquinato e, per un bambino, rappresentava una continua scoperta: c’erano stelle e cavallucci marini, piccolissimi pesci luccicanti che si muovevano in gruppo e, in gruppo, scartavano fuggendo, se provavi a prenderli. Sulla riva l’acqua era bassa e si poteva stare seduti, comodi, immersi nel tepore. Bastava infilare la mano nella sabbia per sentire il guscio liscio di una tellina o quello ruvido di una vongola, mentre lo sguardo seguiva vigile l’assedio sghembo dei granchi. Quando poi, le mani cominciavano a curarsi, come dicevano i grandi, quando, cioè, le dita diventavano bianche e i polpastrelli raggrinzivano, era il momento di alzarsi, di rimettersi in piedi, per uscire dall’acqua. Poi, per fortuna, si poteva tornare seduti, sulla sabbia, al caldo, a costruire ponti e castelli, ammucchiando tronchi conici, scodellati abilmente da un secchiello. Abilmente perché, prima, bisognava cospargere il suo interno di sabbia asciutta, in modo che quella umida potesse poi uscire compatta, dopo aver sapientemente battuto il fondo del secchiello. Su questi castelli si fantasticava con arditi sgocciolii di acqua e sabbia che la mano, ferma, faceva scivolare giù da un dito, innalzando guglie intarsiate. La magia trasformava forme seriali di un secchiello in esotici palazzi. Per fare questo, però, bisognava assumere una diversa posizione: era necessario inginocchiarsi e sporgersi con cura. Una nuova esperienza, per imparare a stare in piedi, in equilibrio nella vita. Appena ho potuto ho lasciato quel paese, quel mare che, oltre la riva, m’inquietava, e sono tornato in città. Quella città che ricordavo soltanto attraverso una nitida immagine: ero molto piccolo, in braccio a mia madre che cercava riparo dal turbine di polvere che una tromba d’aria aveva sollevato. Quella stessa tromba d’aria che, il 23 maggio del 1953, aveva fatto cadere la guglia della Mole e che faceva smarrire gli adulti che si ostinavano a restare in piedi davanti a lei. Io, però, in braccio a mia madre, mi sentivo sicuro e guardavo, dietro le sue spalle, una grande piazza, confusa dal groviglio fluttuante di polvere e cartacce. Quel ritorno voleva dire che ero diventato grande e che dovevo camminare con le mie gambe. Ci ho impiegato un po’, soprattutto, quando i miei amici mi hanno portato, per la prima volta, in montagna. Era inverno e faceva freddo. Non ero abituato a muovermi nella neve e faticavo a restare in piedi, sul ghiaccio. Tutto quel bianco, disteso a coprire ogni cosa, mi lasciava smarrito. Ancora una volta, per raggiungere un posto, bisognava allontanarsi dalla riva e, in mezzo, c’era l’incerto. Quando la neve si è sciolta ho scoperto i sentieri e, anche, che qualcuno, prima di me, li aveva segnati, pietra dopo pietra, perché altri non potessero smarrirsi. Negli anni sono tornato spesso dove c’era il mare, nelle Marche, sull’Adriatico. Ci sono tornato anche nell’estate dell’inizio degli anni ’90 quando, nei Balcani, la guerra spargeva morte e dolore. Un giorno che ero sulla spiaggia a camminare, mi sono fermato e sono rimasto lì, in piedi, a guardare lontano, sapendo che quel lontano non lo era affatto e che, dall’altra parte di quel mare che mi aveva sempre inquietato, c’era la ragione della mia paura: la follia che negava ad altri la vita. Poi mi sono guardato intorno e ho rivisto la solita gente che, indifferente, pretendeva la propria estate e mi sono smarrito. Confuso tra me, uguale a loro, che avevo accettato quel massacro come ineluttabile, e il mio bisogno di tornare bambino, seduto, raccolto, accovacciato, nascosto. LA FORESTERIA "TIZIANO TERZANI" DI CASCINA MACONDO
Il nome "Macondo" che abbiamo dato alla nostra Cascina nel 1992 " Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo comparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades…"
Si ringrazia Gabriel Garcia Marquez per aver scritto e regalato agli uomini un così grande libro. A lui la nostra gratitudine e il nostro affetto.
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Ultimo aggiornamento ( Lunedì 01 Agosto 2011 10:38 ) |
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